Stolen moments
Una lettura del solo di Oliver Nelson da
The Blues and the Abstract Truth
di
Luigi Mangiocavallo
1. THE BLUES AND THE ABSTRACT TRUTH
Oliver Nelson, sassofonista e compositore nero nato nel 1932 a S. Louis, nel 1958 ottiene il Master in teoria e composizione musicale alla Lincoln University del Missouri. Subito dopo si trasferisce a New York e nel 1959 inizia a registrare da leader per Prestige. Nel 1961 il produttore Creed Taylor chiede a Nelson di mettere insieme una band per registrare un nuovo album. La band verrà formata da musicisti di indubbia grandezza, Freddie Hubbard (tp), Eric Dolphy (as,f), George Barrow (bs), Bill Evans (p), Paul Chambers (b) e Roy Haynes (d). L’album si intitolerà The Blues and the Abstract Truth e sarà registrato il 23 febbraio 1961 nello studio di Rudy Van Gelder a Englewood Cliffs, New Jersey, per l’etichetta Impulse, sancendo il successo di Nelson come leader e compositore.
Per completare la breve biografia di Nelson dobbiamo riconoscere che il livello di quest’opera non verrà più raggiunto in seguito, forse a causa di un frenetico andirivieni tra il cinema di Hollywood, la TV e il jazz, finché il nostro non morirà d’infarto nel 1975, a soli 43 anni.
L’album contiene sei tracce:
1. Stolen Moments
2. Hoe-Down
3. Cascades
4. Yearnin’
5. Butch and Butch
6. Teenie’s Blues
Tutte sono composte e arrangiate da Nelson, tranne Hoe-Down di Aaron Copland, e molte di esse ci rivelano una personale e suggestiva concezione del blues, oggetto di deformazioni strutturali, inserimenti e dilatazioni da parte dell’autore.
Nel 1964 Nelson registrerà ciò che può essere considerato il seguito dell’album, pubblicato col titolo More Blues and the Abstract Truth, senza tuttavia suscitare un pari apprezzamento.
2. TRACK 1: STOLEN MOMENTS
Il brano Stolen Moments (o The Stolen Moment) rappresenta, a nostro avviso e non solo, il vertice espressivo dell’album. Subito dopo il rilascio di The Blues and the Abstract Truth, la sua prima traccia viene pubblicata da Down Beat, portando all’autore ulteriore apprezzamento e ingaggi, soprattutto in veste di arrangiatore.
Di questo brano prenderemo in esame il solo dello stesso autore, momento di sublime grandezza sul piano testuale e performativo, che ci ha impegnato intensamente in letture stratificate su diversi piani, a riprova della pregnanza del suo contenuto poetico.
Prima di tutto, riportiamo la trascrizione del tema, così come è pubblicata nel vol. 73 della raccolta di Jamey Aebersold, sufficientemente e convenzionalmente precisa per l’uso che ne faremo.
Come possiamo vedere, dopo una introduzione di quattro battute, a partire dalla melody si profila un blues in C minor. Ad esso però è stata apportata una particolare dilatazione della struttura, con l’aggiunta di una figurazione ripetitiva (battute 13-18) armonizzata per movimenti cromatici ascendenti e discendenti. Si arriva così a un totale di sedici battute, che vengono ripetute due volte sia nell’esposizione iniziale che in quella finale, più le quattro di intro. Nonostante la particolare forma del tema, i soli si svolgono nella struttura canonica del blues di dodici misure.
Notiamo pure l’andamento a block-chords dei quattro strumenti a fiato (tromba, sax alto, sax tenore e sax baritono) trattati in sezione, su un’armonizzazione tutt’altro che convenzionale.
Altro particolare rilevante ai fini della nostra indagine, è la conformazione della testa del tema, ovvero l’arpeggio ascendente di una triade, riproposto anche sul IV grado del blues.
Infine, la figura ripetitiva dell’inserto alieno, anch’essa di tre note, sebbene abbia una diverso profilo melodico rispetto alla testa del tema, continua a colpire il nostro orecchio in modo prepotente.
Unica nota dolente da rilevare nell’esecuzione, una non perfetta intonazione degli unisoni tra il contrabbasso e la mano sinistra del piano, piuttosto fastidiosa, a nostro modesto avviso.
Molto altro si potrebbe aggiungere su questo splendido tema e sulla nebbiosa atmosfera che lo avvolge, ma è bene tenersi in movimento verso l’obiettivo principale.
Esaminiamo ora a grandi linee la successione dei soli, che prima schematizziamo come segue.
Hubbard |
Dolphy |
Nelson |
Evans |
4 chorus |
3 chorus |
4 chorus |
3 chorus |
Attacca Freddie Hubbard, col suo bopping ora grintoso, ora ispirato e riflessivo, nel cui quarto e ultimo chorus fa irrompere a sorpresa una serie vorticosa di arpeggi.
Gli rispondono tre chorus di Eric Dolphy che, lasciato il sax contralto del tema, da par suo imbocca il flauto e lo conduce in volate vistuosistiche piuttosto distanti, stilisticamente, dagli altri solisti. La sua originalità spicca, in tale contesto, in netta evidenza e ciò risulta perfettamente funzionale all’arco espressivo di tutta la successione. Grazie ad essa, infatti, nonostante l’alternanza tromba vs flauto, dal punto di vista fonico e di articolazione, possa facilmente andare in direzione opposta, questi primi sette chorus generano gradualmente qualcosa che non chiameremmo, banalmente, un “crescendo di tensione” ma, piuttosto, un “crescendo interrogativo”. Ce ne accorgiamo più chiaramente all’entrata del solo di Nelson, una volta stabilito, a regime, il suo modo operativo-espressivo, in cui la materia sembra improvvisamente trasformarsi e trasferirsi in un’altro universo emotivo. Come se non bastasse, nell’impatto, altra energia si libera e un altro subliminale effetto viene a colpire la nostra più interiore percezione: quello generato da una sorta di doppia-inversa “schizofrenia”. Prima il flauto, strumento che dai suoi albori ha seguito tutta la musica europea, “colta” o meno che fosse, contorto qui in evoluzioni parkeriane (col mutatis mutandis che si deve al grande Dolphy, naturalmente), very jazzy, diremmo. Poi il sax di Nelson, strumento principe del Jazz, emancipato nel Jazz e quasi suo dominio esclusivo, che suona ora sorprendentemente “europeo”. Questo è l’effetto che ci fa e lo segnaliamo, rimandando la motivazione alla nostra analisi, più avanti. Dopo il solo di Nelson, infine, un Bill Evans perfetto, cristallina espressione di se, classico, che con i suoi tre magnifici chorus ci riconduce, senza scossoni emotivi, al tema finale.
Infine, riascoltiamo di nuovo l’introduzione e il tema di Stolen Moments sul blues “deformato”. Ogni tensione si scioglie e l’ultimo fiato di Hubbard esala ancora una volta l’arpeggio della triade del tema.
Un rapido esame della sezione ritmica, il basso di Paul Chambers e la batteria di Roy Haynes, insieme all’andamento metronomico generale, ci forniscono una cornice più precisa all’interno della quale si sviluppano le dinamiche del brano.
Haynes imposta un brushed drumming e lo mantiene lungo tutto il pezzo. La sua figura swingata sullo snare è piuttosto stretta nella sua proporzione LS (long-short). Analizzandola sulla forma d’onda del file audio (lo abbiamo fatto a campione in più passaggi ottenendo un’andamento pressoché costante) otteniamo quanto si vede nella figura seguente.
Purtroppo dal grafico è spesso impossibile rilevare il sedicesimo, di debole ampiezza rispetto all’energia generale, ma all’ascolto abbiamo potuto marcarlo con grande precisione. Vediamo, comunque, che il rapporto è sempre maggiore di 3/1, arrivando a 3,8/1, quindi, in generale, un L che è inferiore al sedicesmo. Teniamo conto che un andamento swing si definisce tradizionalmente come terzinato, cioè LS di 2/1, secondo convenzioni obsolete se non il più delle volte inesatte.
Il basso scandisce un walking piuttosto preciso sui quarti della batteria, talora con una leggera tendenza all’anticipo, sensazione dovuta più che altro alla frequente azione di note in levare, come suggerito dall’arrangiamento del tema tra le battute 13 e 18 (scala cromatica ascendente e discendente in anticipo). Drums+bass stabiliscono quindi un drive molto potente, a fronte del quale, per contrasto, i fiati enunciano un tema fortemente depulsivo. Vediamo un esempio.
Era la trasposizione grafica di questo frammento del tema, tra battuta 12 e 13:
e ci mostrava la media di come viene intesa la proporzione LS dai fiati nell’esposizione. Notiamo che il rapporto di 1,4/1 misurato, corrisponde a una notazione che si situa in una via di mezzo tra crome uguali (1/1) e crome di terzina (2/1). Ecco come appare il raffronto grafico tra i due modi di swingare.
Questo contrasto di fondo porta all’immediato e repentino dragging (il “rallentando” di Purcell, termine che qui rende bene l’idea del “trascinarsi”) del tempo metronomico che, rilevato all’inizio del tema, risulta di 112 bpm e poi affonda fino a 104. C’è una stabilità finale intorno ai 106 bpm, dove Hubbard può partire imprimendo un’improvvisa accelerazione verso i 110 bpm.
Almeno una parola per il bravo George Barrow, che al sax baritono realizza la quarta linea dell’armonizzazione stretta, ma che non gode di spazio nella sezione dei soli.
Al termine di questa ricognizione generale, possiamo iniziare l’analisi del solo di Oliver Nelson, che ci aiuterà a comprendere come questi quattro chorus risultino oggettivamente outstanding rispetto a quelli, pur pregevoli, degli altri musicisti. Essi si inseriscono nel contesto poetico del brano come un diamante si incastona nel metallo prezioso di un gioiello. Perle di assoluta bellezza, si illuminano di particolarissima poesia, ponendo inevitabilmente in penombra tutto il resto.
3. IL SOLO DI NELSON
Per svolgere la nostra analisi, abbiamo deciso di realizzare due differenti tipi di trascrizione.
1) Score-convenzione (SC): una partitura dedotta, che interpreta il testo così come, verosimilmente, lo avrebbe trascritto lo stesso autore; vengono “normalizzate” le divisioni ritmiche e rispettate le convenzioni della notazione jazzistica, come gli ottavi uguali e la parsimonia di indicazioni dinamiche e agogiche, uno score low-fidelity, a bassa risoluzione, la cui compilazione prende spunto dalle caratteristiche notazionali dello stesso tema riportato da Aebersold.
2) Score-proiezione (SP): una partitura ad alta risoluzione, che trascriva con la massima fedeltà possibile sia il testo che le inflessioni dell’idioma utilizzato dal performer nel preciso momento in cui registra su nastro ciò che poi risulterà inciso su disco e pubblicato. La proiezione dell’evento fonico sulla carta, che imprima il minimo di errori prospettici. Ovvero, per seguire le definizioni del Principio Audiotattile (V. Caporaletti), uno score che registri ogni evento ragionevolmente registrabile di quel complesso di atteggiamenti psico-motori, fisico-sensoriali eccitati da Nelson in quel minuto e 40 secondi in cui il quel suo solo si sviluppa.
Ma la nostra analisi, per essere il più esaustiva possibile, non potrà non prendere in considerazione altri due importanti fattori mediali dell’intero processo poietico-estesico, creativo-cognitivo, ovvero da un lato la tecnica di registrazione fonografica impiegata e dall’altro le suggestioni emotive indotte nell’ascoltatore (in questo caso, chi scrive).
Riportiamo subito lo score-proiezione (SP), compilato con pazienza.
La tonalità è C minor ma usiamo solo due bemolli in chiave perché le scale usate oscillano tra la dorica e la minore melodica, entrambe col sesto grado naturale. Il C e il F sono indicati genericamente minori, senza specificare la presenza del 7° grado. Evans realizza su di essi armonie che variano dal minor 7th al minor 6th, per cui lasciamo aperta la siglatura, peraltro non determinante.
Abbiamo anche specificato che gli ottavi sono da intendersi uguali.
Nelson usa in Stolen Moments il sax tenore; altrove, nell’album, suonerà anche il contralto. Noi lo notiamo in concert pitch, ovvero in C, senza trasposizione. Abbiamo però bisogno della chiave di violino all’ottava bassa, oltre che di quella normale per i passaggi più acuti; si prega quindi di fare attenzione.
Iniziamo dal primo chorus. Una bizzarra figura discendente di Dolphy consegna il testimone a Nelson. Il tactus metronomico arriva in questo frangente piuttosto incrementato rispetto all’inizio dei soli. Per ricapitolare, il grafico cartesiano bpm/struttura ci torna utile per una visione d’insieme della spinta ritmica (ricorriamo a una necessaria approssimazione dell’asse temporale su cui giace la struttura del pezzo).
Vediamo che Dolphy porta fino a 120 bpm il tempo, dopodiché Nelson lo assesta a 118 e attraverso Evans lo lancia fino alla ripresa, che si spegne gradualmente.
Quindi, 118 bpm per Nelson, stabili e inesorabili (li abbiamo misurati in più punti) sul drumming di Haynes e il walking di Chambers, un groove che è il terreno sicuro su cui si muove (si libra, diremmo meglio) il sax del leader.
Insomma, superato il trauma della transizione Dolphy-Nelson, quello che ascoltiamo ci lascia sgomenti. L’arpeggio di un tricordo.
Ci torna in mente il tema di Stolen Moments, ma non lo capiamo subito. Qualcosa non va, suona slabbrato, sfinito. Non si tratta della triade minore ma di un tricordo quartale la cui terza nota cade, stanca, sul tempo forte di metà misura e vi rimane appesa, fissa, inerte. Solo un vibrato flebile la anima ancora. Subito una ripetizione, altrettanto sfiduciata. E poi di nuovo sul F minor, ancora più sfibrato, l’arpeggio diventa una terzina di quarti e infine, la quarta volta, è la seconda nota a cadere sul battere di Haynes. Ma è l’evocazione tema, non c’è dubbio e ciò ci predispone alla ricerca attenta dei suoi echi più lontani. A questo punto, trovata la terra di riferimento, iniziamo a scrivere lo score-convenzione (SC) che ci aiuta a capire meglio l’architettura del solo, nonostante sia forte il rischio di adottare traduzioni arbitrarie.
Qui capiamo che Nelson ha inteso depotenziare al massimo l’energia del tema, allargando gli intervalli alle quarte e operando shift temporali variegati. Le defatiganti ripetizioni si chiudono con la cellula di battuta 8, che trascritta fedelmente su SP è:
mentre, a noi, la reale intenzione musicale appare così, nello SC:
a cui si aggiunge un certo svuotamento di energia. Marchiamo in questa battuta gli elementi tematici:
in (a) le tre note dell’inserto alieno di battuta 13 del tema
e in (b) la triade di testa, svolta in senso discendente e in frenata ritmica.
Insomma, dopo la frenetica propulsione del solo di Dolphy, ci troviamo ad andare nella direzione opposta, drasticamente. Dove sono lo swing e il groove? Questo sax suona “antico”. Ci vengono in mente le colonne sonore dei film italiani tra gli anni ‘50 e ‘60, il sound dello swing all’italiana di Piero Umiliani.
Nelson imposta un vibrato stretto e rapido, lontano da ciò che normalmente si ascolta nel Jazz e questo gli dona un timbro intimo, quasi timido e intimorito, ma nello stesso tempo palpitante e vivo. L’uso espressivo che ne fa è perfetto. Lo calibra bene e lo ferma quando è necessario, come vedremo.
Anche la tecnica di registrazione contribuisce a questo particolare sound e avvolge il sax di Nelson in un velo di riverbero. Nel suo studio, il famoso sound engineer Rudy Van Gelder fa largo uso di devices elettromeccanici per la riverberazione. A quel tempo, l’effetto riverberante era esclusivamente ottenuto da banchi di molle (spring reverberators) o piatti (plate reverberators) metallici sollecitati da elettromagneti. Era quasi impossibile variare la lunghezza del decay dell’effetto e il parametro su cui si agiva era la percentuale di mix tra il suono diretto e quello riverberato. Mentre la sezione ritmica, sapientemente, viene lasciata quasi totalmente senza riverbero, su tutti gli strumenti a fiato il mix diventa piuttosto pesantemente trattato. A noi pare di rilevarne una piccola percentuale in più nel solo di Nelson o, quanto meno, l’impressione è che sul timbro del sax e su quel modo di suonarlo il riverbero venga più in evidenza e contribuisca non marginalmente alla particolarissima e impalpabile aura nebbiosa che lo circonda.
Dicevamo dell’impatto inaspettato quanto sorprendente dell’entrata del solo. Ma, sempre sorprendentemente, il primo chorus termina con un guizzo di energia pura, inattesa, a battuta 9. Osserviamo lo SC:
che si rilassa con una leggera depulsione a battuta 10, come vediamo dallo SP.
Anche qui c’è grande ricchezza di spunti. La battuta 9 vede il dilatarsi massimo della testa del tema, dove l’arpeggio diventa di quattro note, scattando poderoso dalla nota più grave del tenore ed estendosi su un intervallo 13ma. Dallo SP notiamo che Nelson riprende a swingare potentemente, con accenti, ritrovando la proporzione LS degli ottavi dell’esposizione, persino in versione enhanched. La battuta 10 si specchia qui:
e con quelle cinque note tratte dalla parte mediana del tema, dal groove in caduta, ci conferma la particolarissima coerenza tematica che permea tutto il solo. Alla battuta 11 ancora l’arpeggio, con testa contratta in una 4ta e discendente, spegne in pianissimo il primo chorus, con un fa2 che a malapena riesce a risuonare.
Nei tre quarti in cui il sax tace e riprende forza, appare magicamente un arpeggio ascendente del piano di Evans sul G7alt. Sembra il frutto di quelle alchimie imperscrutabili che si riscontrano nel Jazz.
Il risultato è quello di rilanciare e infondere nuova energia al sax di Nelson, che infatti riparte nel secondo chorus con sonorità rinforzata stabilendo, questa volta con sicurezza e senza titubanze, la vera natura della cellula tematica di incipit, fin qui slabbrata, diluita, strappata, liquefatta. Vediamo tutto il secondo chorus nello SP.
Subito la giustapposizione reiterata di due triadi arpeggiate, sul I grado e sul II, la prima con le tre note dell’accordo minore fondamentale e la seconda con le tre estensioni estreme. Consonanza e dissonanza, distensione e tensione, Apollo e Dioniso, Europa e America, la Trinità, il Numero Perfetto, il tempus perfectum dell’Ars nova. Quant’altro possiamo ancora vederci senza fantasticare troppo? L’insistenza con cui Nelson in questo chorus ci infligge la triade è ossessiva. La eleva verso l’acuto, scala il Parnaso, raggiungendo le note estreme del sax tenore e in battute 18-19, con suoni lancinanti, la sfibra di nuovo, la dilata. Compie, stavolta nell’estremo acuto, ciò che aveva già fatto in quello grave, a battuta 9. Simmetria evocativa, cielo-abisso, paradiso-inferno. Compariamo le battute 17 e 18 nelle due versioni SP e SC per vedere come noi abbiamo interpretato la dilatazione.
Da notare, per inciso, come Nelson attraversi con i suoi disegni melodici le zone armoniche del blues con un’assoluta padronanza. In battuta 16 è introdotto il lab con mezza misura di anticipo rispetto al F minor.
Poi riparte di nuovo a battuta 20, sempre con le triadi, in un’altra ascesa, ma trova un limite invalicabile a battuta 21 nel mib3 e si ostina a girare su se stesso fino all’esaurimento delle energie alla fine del secondo chorus. La magistrale operazione di stretch-and-compress e di shift agogico (e anche armonico, come abbiamo visto poco più indietro a battuta 16) che il performer Nelson mette fisicamente e scientificamente in atto sull’impalcatura di questo chorus ci lascia letteralmente attoniti. Una tale consapevolezza architettonica del testo, unita a una così intensa modulazione di “affetti” (nell’accezione seicentesca del termine, secondo l’Affektenlehre, la teoria degli affetti musicali a disposizione della retorica del “musico oratore”) è riscontrabile piuttosto raramente in ambito jazzistico. Non lo diciamo per svalutare il Jazz, come farebbe un’interpretazione eurocentrica che non ci appartiene, ma per sottolineare ancora una volta l’unicum che questo solo rappresenta, con il suo concorso di culture, linguaggi e retaggi, in un contesto che perlopiù predilige altre modalità poetiche. Andiamo avanti verso il terzo chorus.
Si verifica in queste prime otto misure (più la 24 di levare) una ripresa dell’inizio del primo chorus, con alcune significative trasformazioni. L’incipit tematico è ora osservabile in questo modo:
Si inserisce una nota estranea, ma la citazione, malgrado ciò, è quasi testuale, con le medesime note; ricordiamo il tema.
La terza nota rimane, come già nel primo chorus, appesa, hanging o freezed (anche il gergo informatico ci aiuta a rendere la sensazione di questo congelamento a mezz’aria) al 9° grado della scala che suona, nel registro acuto, particolarmente struggente con le sue ripetizioni.
Mentre Chambers e Haynes proseguono generalmente impassibili per la loro strada, con spunti appena accennati di dialogo, ancora una volta, poche note in contrappunto del piano di Evans conferiscono un surplus di phatos all’allucinata fissità del sax, armonizzando in battute 25-26 con C minor 7th => C minor 6th, suggerendo il mood e il modo della scala che passa da dorica a minore melodica. Questo è il piccolo contrappunto che ne risulta.
Stesso disegno sul F minor e la nota acuta della triade, il sol4, è al limite dell’estensione dello strumento, ancora più intensa, ipnoticamente sospesa lassù, senza vibrato, momento etereo e sublime, finché si decide a planare verso terra, con l’esaurirsi del fiato, in diminuendo verso il re4.
Dopo questo inizio di chorus, magico e di grande suggestione, Nelson si dirige a passi svelti verso la fine, in un disegno ritmico concitato (ci viene in mente lo stile “concitato” di Monteverdi, ma ci verrà perdonato lo sconfinamento) che andiamo ad osservare.
Abbiamo provato a interpretare la figura ritmica di base che viene distorta all’inizio in rubato depulsivo, poi in accelerando in avanti. La cellula melodica ripetuta ricorda ancora il tema in doppia figura, ascendente e discendente. Non poteva esserci conseguenza più azzeccata, dopo la statica attesa delle note acute, di questa caduta libera verso il grave e in senso fortemente propulsivo.
Senza accorgercene siamo entrati nel quarto e ultimo chorus. Grande, anche qui come in battuta 16, la capacità del leader di insinuare smoothly le sue figure ritmiche e melodiche tra le armonie e tra i chorus. In questo punto, Oliver Nelson appone la sua potente firma e suona un pattern costruito sulla scala aumentata di fa (notiamo che la fine del chorus precedente contiene un arpeggio di F major).
La scala usata è la seguente:
e Nelson la usa per comporre un pattern che arpeggia le tre triadi maggiori che vi risiedono, F - A - C# (o Db) aggiungendo una nota del semitono sopra. Segnaliamo che nella traccia 2 di The Blues and the Abstract Truth, il tema della composizione Hoe-Down di Aaron Copland in realtà subisce una forzatura da parte di Nelson, che vi impone alcuni passaggi interamente costruiti sullo stesso pattern aumentato. In questo punto del solo di Stolen Moments quel pattern non è un vezzo ma un elemento perfettamente funzionale, assumendo una doppia valenza di propulsione verso il grave, dopo il volo del chorus precedente, e di reiterazione della triade tematica. Perfetto, tutto torna senza che si avverta minimamente l’estraneità di quella scala aumentata rispetto al C minor del blues, soprattutto per quanto riguarda il mi naturale sul mib. Un’altra constatazione che dobbiamo fare su questo passaggio riguarda la sua esecuzione. Abbiamo quindi prova di quale fosse la sua realizzazione ritmica dagli altri esempi che troviamo nell’album e che ci confermano la nostra interpretazione dello SC che abbiamo riportato sopra. Tuttavia, se osserviamo al microscopio, dobbiamo fare un’altra trasposizione notazionale della battuta 37, più precisa, che diventa così nello SP:
si verifica una certa dilatazione depulsiva che comunque, in questo caso, non toglie, semmai aggiunge energia alla caduta verso il reb2, che non vuole ancora essere il punto di arrivo, come vedremo.
La conquista del suolo avviene, infatti, con un rimbalzo sul sonoro reb2 grave in battuta 37-38, dopodiché, finalmente, riposa sul do2 esausto di battuta 39. Ma proprio in questo momento avvertiamo un potente déjà vu sonoro, che ci tormenta per ore. Dopo una notte incerta e un rovistare di partiture, ecco la risposta.
Questo frammento, questo suono, questa frase e queste stesse note, nella stessa tonalità, li abbiamo già sentiti qui:
E’ Boléro di Maurice Ravel, nel “chorus” del sassofono tenore, che abbiamo riprodotto completamente. Il tema chiude così, trasposto in C:
Non possiamo non sentirne l’evocazione, all’inizio di questo quarto chorus di Nelson. La sua educazione accademica ne condiziona positivamente le modalità compositive come pure quelle improvvisative e gli echi del vecchio continente ancora risuonano. Ci diverte un po’ leggere, all’inizio del “chorus” di Boléro, l’indicazione che Ravel pone al sassofono: mp espressivo, vibrato e confrontarla con quella che prima avevamo apposto noi alla trascrizione SP del solo di Stolen Moments. E altresì curioso notare, dopo aver riascoltato Ravel, come il sassofono (usiamo volutamente una diversa terminologia) del Boléro suoni “esotico”, mentre il sax di Nelson in Stolen Moments suoni “europeo”; potenza della suggestione, ma ricordiamo il proposito iniziale di esaminare tutta la stringa creativo-percettiva che l’evento musicale genera, dalla mente del performer a quella dell’ascoltatore.
Da questo momento la linea di Nelson si libra nuovamente fino al mib4, in un ultimo volo solitario che, lentamente, volteggia nell’aria ondeggiando, swinging melody (l’inviluppo della figura melodica è plasticamente raffigurato dalla partitura), diremmo, poi morbidamente si riadagia sullo stesso c2 da cui è partita. Non abbiamo nulla di particolare da segnalare in questo finale di solo, se non un ritorno a quella assenza di swing del primo chorus che si realizza in una assoluta ambiguità ritmica. Abbiamo avuto difficoltà a mettere su pentagramma queste battute (39-48) perché, ad un’analisi dettagliata, l’inciso ha la nota più acuta in battere tuttavia, nonostante questo, “suona” in levare e in definitiva questa è la scelta che abbiamo adottato per lo SC. Vediamo il confronto di SP (sopra) e SC (sotto).
Aldilà della vaghezza di questi elementi ritmici, che sono comunque importanti perché riportano a quello svuotamento dell’energia performativa che abbiamo misurato all’inizio del solo, sembra che, in questo ultimo passaggio, il leader si sia finalmente liberato del fardello tematico che lo ha ossessionato fin qui e, come in una sorta di pausa di decompressione, si accinga a passare la mano a Evans.
Giunti a questo punto, diamo uno sguardo all’insieme del solo, con un grafico che abbiamo realizzato in modo empirico e che ci mostra l’energia musicale espressa da Nelson nel corso delle quarantotto battute.
Per finire la nostra analisi, riportiamo per intero prima lo score-convenzione (SC) e poi una partitura che unisce SP (sopra) e SC (sotto), per un raffronto generale più efficace.
Oltre ad aver suggellato la composizione di Stolen Moments e il suo magnifico solo con la firma musicale del pattern aumentato, il leader, con la sua poetica intensa e concreta, ci declina le proprie generalità. Oliver Nelson, Musicista del Mondo e, proprio in quanto tale, perduto nella sua vastità, disorientato. Il suo solo, in tutto il dipanarsi di granitiche architetture, sembra ostentare una lucida e meditata serie di effimere certezze che, tentando di aggrapparsi involute alla loro stessa natura, inevitabilmente crollano, sopraffatte dal loro perdersi inesorabile. Ecco cosa ci infonde questo rapito momento di musica: un senso di profondo smarrimento, in cui regole certe e collocazioni rassicuranti non trovano più il loro essere, liquefatte in una disperata incertezza. In tutto ciò, il riconoscersi dell’ascoltatore, in special modo il nostro, trova la più desolata immedesimazione e, insieme ad essa, la più tenace spinta vitale. Una verità astratta?
Stolen Moments. Il solo di Oliver Nelson
Luigi Mangiocavallo
Roma, luglio 2010