JAZZ STUDIES


Luigi Mangiocavallo

Free Jazz
Un filo nella matassa della storia del Jazz
Ornette Coleman e gli archi

Questi sono solo appunti che butto su carta con lo scopo di ordinarmi un quadro utile sulle prime mosse di ciò che viene definito Free Jazz. Durante questo lavoro, che ha un obiettivo preciso, ovvero Coleman e il suo violino, mi sono imbattuto in alcuni risvolti non trascurabili che mi hanno costretto, per il momento, a impantanarmi prima del traguardo. Pertanto, le mire si sono spostate, gli orizzonti si sono dilatati e impacchetto lo scritto in fretta lasciandolo incompleto.

1. Il contesto socio-politico

Tra gli anni ‘50 e ‘60 il governo americano assunse provvedimenti volti a rappresentare il jazz come una sorta di luogo di convergenza e di conciliazione tra bianchi e neri. Essi dovevano servire anche a dare un’immagine diversa degli Stati Uniti agli occhi del mondo, come nazione in cui erano in via di superamento confini e discriminazioni razziali. Il jazz, anticipando i tempi, si era effettivamente dimostrato come il crocevia di incontro tra bianchi e neri. Musicisti delle due razze si mescolavano e suonavano più o meno senza distinzioni in piccoli gruppi come in grandi orchestre.

Nel 1955 Rosa Parks e Martin Luther King accesero il boicottaggio degli autobus da parte dei neri di Montgomery e un anno dopo la Corte Suprema americana dovette sancire che quelle segregazioni erano incostituzionali.

La situazione socio-politica degli USA rimaneva tesa e le battaglie per i diritti civili erano destinate a scoppiare negli anni ‘60. Per poter capire meglio il contesto sociale di questo decennio cruciale, segnaliamo una lista di avvenimenti che scatenarono importanti cambiamenti in tutto il mondo.

La guerra in Vietnam continuava sempre più feroce; nel 1961 si innalzava il muro di Berlino; la rivolta studentesca e giovanile divampava dissacrando scuole e istituzioni, perfino la bandiera veniva data alle fiamme da giovani che apparivano sciatti e coi capelli lunghi; l’impressionante serie di omicidi eccellenti del presidente John Kennedy (1963), di Malcolm X (1965), Martin Luther King e Robert Kennedy (1968) rimaneva (e rimane tuttora) perlopiù avvolta nel mistero; i primi uomini sbarcavano sulla Luna (1969); la musica rock si imponeva e guidava con i suoi testi impegnati le nuove generazioni nel rigetto dell’era del Tin Pan Alley; una parte consistente del mondo giovanile sceglieva se battersi politicamente o evadere annullandosi nelle droghe.

Alla fine del decennio, tutti questi avvenimenti si rivelarono non sterili e portarono a consistenti passi in avanti per la società americana e il mondo occidentale.

2. Il Free Jazz. Primi esperimenti

Lennie Tristano aveva battuto il terreno della libera improvvisazione collettiva in alcune registrazioni della fine degli anni ‘40 come Intuition e Digression. Nonostante venisse accusato di essere capziosamente sperimentale, le sue esplorazioni erano effettivamente parte importante della sua pratica e degli insegnamenti cardine della scuola di jazz che aveva fondato a New York nel 1951, come dimostrano alcune registrazioni del suo seguace chitarrista Billy Bauer.

A nostro parere questi tentativi risultano piuttosto deludenti, non tanto nelle intenzioni programmatiche quanto nella realizzazione. Si concretizzano quasi come un “suonarsi addosso” poco convinto, non motivato da ragioni sociali e soprattutto senza che i musicisti (Konitz, Marsh, Bauer ecc) avessero maturato un fraseggio opportunamente svincolato da tonalità e convenzioni melodico-ritmiche. Nonostante quel gruppo, rimasto tra l’altro un po’ elitario, avesse sperimentato molto dal punto di vista delle poliritmie e polifonie, possiamo affermare che tutto rimase in un ambito estetico molto ristretto.

Inoltre, il suono troppo ricercato e l’assenza di quel parlare “sgraziato” che sarebbe arrivato in seguito per merito di altri musicisti, privava quei primi tentativi di quella necessaria “violazione”, di quel vulnus timbrico che avrebbe fatto parte integrante del concetto di libera musica che si sarebbe affermato più tardi. Ciò, comunque, aprì la strada ad ulteriori esperimenti verso la fine degli anni ‘50, ad opera di Charles Mingus e soprattutto di Ornette Coleman.

Per quanto riguarda Mingus, alcune sue soluzioni ritmiche e di tessitura strumentale d’insieme sono state spesso assimilate alle caratteristiche in seguito solidificatesi nel Free Jazz. La collaborazione con Eric Dolphy, molto intensa nel 1960, fu in questo determinante. Un primo esempio, tra le registrazioni di Mingus, lo troviamo in Pithecanthropus Erectus, in cui, in una sezione, la band è lanciata in un’improvvisazione collettiva totalmente libera che non ha riferimenti con gli elementi tematici o armonici del resto della composizione. O ancora alcune situazioni armonicamente statiche o dilatate o oscillanti, che poi verranno riprese da Miles Davis verso la fine degli anni ‘50. Con questi elementi Mingus tendeva a rafforzare la spinta verso la libertà e nello stesso tempo comunicava e riaffermava in modo prepotente lo spirito primordiale del blues.

Più in generale, la tendenza al superamento delle rigide strutture armoniche e melodiche del Bebop si andava delineando già dalla metà del decennio, con sperimentazioni varie. Ricordiamo tra l’altro il concetto di “big room”, in cui le strutture armoniche dilatate, i pedali sostenuti e l’idea “cosmica” o “epica” di Jackie McLean o dei Jazz Messengers di Art Blakey permettevano di muoversi più liberamente. Riportiamo un passo significativo di un’intervista a McLean del 1996 che riassume perfettamente per noi le pulsioni di quegli anni ‘50.

“[...] Charlie Parker used to ask the young musicians to listen to Stravinsky’s “Firebird”... And we never did. I didn’t anyway, because I was too busy listening to Charlie Parker. And, when Bird died, though, I listened to that, that very day that he died. I went to a record shop and I didn’t get “Firebird”, I bought “Rites of Spring” and listened to that. And it opened my head to some other concepts of playing and so, a lot of people in the mid-50, like Sun-Ra and like Cecil Taylor were already playing music that had an open concept, what I call the ‘big room,’ a place where you could cross a threshold and have no barriers, no key signatures, no chord progressions, no particular form. And later on, Ornette came to New York with his quintet and stood his ground and made this music really sink in and work [...]”

In  queste  affermazioni  troviamo  anche  l’altra  spinta  che  porta  al  Free  Jazz,  oltre  al fattore sociale più specificamente americano, quella provocata dalle sperimentazioni che avvenivano nel campo della musica di tradizione cosiddetta “euro-colta”. Infatti, su questo terreno, tutto era stato escogitato, dalla dodecafonia alla musica del silenzio, passando per atonalità, musica elettronica, concreta, casuale, fatta al computer o con strumenti preparati, tutto bagaglio già acquisito prima dell’arrivo di Ornette Coleman a New York.

3. Ornette Coleman

Ornette Coleman entra in scena nel 1958 e con le prime registrazioni Something else (Don Cherry tromba, Billy Higgins batteria, Don Payne basso, Walter Norris piano) e Tomorrow Is the question (1959, Don Cherry tromba, Shelly Manne batteria, Don Payne basso) stabilisce già il suo linguaggio. Affiancato dal geniale trombettista Don Cherry, Coleman si addentra in un mondo musicale che gradualmente perde i centri tonali, si destabilizza, suona spesso “stonato” e sgradevole secondo l’estetica tradizionale. I temi, geniali, bellissimi, sovente di gran virtuosismo, sembrano disperatamente aggrapparsi al linguaggio del bebop, ma sempre più si abbandonano alla forza centrifuga impressa dalla natura dei musicisti. Nelle improvvisazioni però lo scarto è già più decisamente marcato. Spesso non rispettano le successioni armoniche e la pulsazione ritmica regolare care al Bebop, ma affastellano e giocano con frammenti melodici in modo caotico, talvolta ossessivo, con ripetizioni insistenti di figure anche elementari o ingenue. L’andamento ora lamentoso ora frenetico del sax di Coleman e gli improvvisi scarti di umore dei fraseggi di Cherry, trascinati da una ritmica tutt’altro che regolare introducono nel lessico jazzistico elementi nuovi. Tutto ciò inserito in forme sghembe, irregolari e destrutturate, con sonorità aspre e primitive, come risulta più evidente in Tomorrow Is The Question dove l’assenza del pianoforte (scelta che sarà mantenuta in futuro da Coleman) permette una maggiore libertà e vaghezza dell’impianto armonico.

Questo avveniva negli stessi anni in cui vedeva la luce Kind of blue di Miles Davis e il divario con questa pietra miliare del jazz è evidente. Negli stessi mesi il jazz poneva due pilastri altrettanto fondamentali e pure così differenti nella loro natura, evidenziando con forza la vitalità di questa musica e la sua capacità di rinnovamento verso molteplici direzioni. I due motori si imprimevano energia reciprocamente, facendo apparire Davis tanto più riflessivo, meditato, strutturato e apollineo quanto più Coleman sparigliava le carte, scardinava le regole e si poneva in un mood dionisiaco. Tra questi poli un terzo poderoso generatore sarebbe sopraggiunto di lì a poco, il gigante Coltrane, affiancato al pari di Coleman da partners come Cherry, Dolphy e Shepp.

Arriviamo al 1960, in cui Coleman, Cherry, Haden e Higgins, dopo The shape of Jazz to come (1959), registrano Change of century  e ancora This is our music (con Ed Blackwell alla batteria al posto di Higgins). Sono, a mio parere, da notare i titoli di questi album, che disegnano un percorso che non lascia dubbi e che è volto alla preparazione di un punto di approdo, di un ancoraggio, di ciò che non poteva non materializzarsi, ovvero di un vero e proprio manifesto programmatico della “new thing”, l’album Free Jazz, a collective improvvisation, registrato nel dicembre del 1960.

Qui Coleman affianca due quartetti senza piano, il suo di The shape of Jazz to come a quello formato da Eric Dolphy, Freddie Hubbard, Scott LaFaro e Ed Blackwell. Osserviamo che, oltre al ritorno di un nome fondamentale per l’evoluzione del jazz di quegli anni, Dolphy, Coleman opera ciò che è stato poi notato da Archie Shepp, cioè l’inclusione e non l’allontanamento di molti musicisti che provenivano da esperienze pregresse e già avviati su strade diverse da quella del Free.

Nel caos apparente dell’improvvisazione di gruppo, ogni musicista è esposto sullo stesso piano ed è assoggettato, più che agli impianti compositivi e alle tecniche strumentali, agli stati d’animo degli altri partners, verso il raggiungimento di una poetica collettiva. Come non notare un riferimento alle battaglie civili e alla rivendicazione di pari diritti per le minoranze. In quegli anni, se il rock ‘n’ roll veniva assunto come la colonna sonora delle proteste giovanili, il jazz moderno e quindi il free jazz costituivano il suono dominante del movimento americano del Black Power.

Intendiamo soffermarci ora su alcuni aspetti dell’arte complessa e rivoluzionaria di Coleman.

4. The Harmolodic theory

Skies of America (maggio 1972) ci è stata tramandata come una suite orchestrale di 21 brani, l’unica opera registrata e pubblicata del gruppo di composizioni per orchestra sinfonica di cui fanno parte anche Inventions of Symphonic poem,  Saints  and soldiers, Space flight  (1967) e Sun suite of San Francisco (1968).

Tralasciamo le vicissitudini sindacali e burocratiche che l’hanno condotta, in Gran Bretagna, alla fissazione su disco che conosciamo e che non corrisponde totalmente alle prime intenzioni dell’autore. Coleman l’aveva pensata come una composizione unica, più estesa e in forma di concerto grosso per orchestra e quartetto jazz. Nella versione pubblicata, Skies era diventata una suite e la contrapposizione tra orchestra sinfonica e quartetto jazz lasciava il posto a una coppia di percussionisti, il figlio Denardo alla batteria sul canale destro della stereofonia e un timpanista d’orchestra che improvvisa sulla traccia ritmica dei temi collocato a sinistra.

Aldilà delle motivazioni più profonde e delle committenze per cui l’autore è spinto a produrre lavori per ensemble vasti e inusuali per il jazz, avvicinandosi così all’area “euro-colta” della musica americana e alle sperimentazioni di Charles Ives e John Cage, perseguendo in tal modo quella “third stream” teorizzata da Gunther Schuller, vogliamo soffermarci un momento su ciò che, pur sembrando una mera tecnica di scrittura, appare a noi come una potente forza generatrice intimamente inscritta nella sfera della poetica e dell’estetica di Coleman, ovvero il sistema da lui escogitato e nominato “Harmolodic”.

Possiamo supporre che Coleman lo avesse già sperimentato nelle composizioni per quartetto d’archi, a partire da Dedicated  to Poets and Writers  del 1962, ma non possiamo fare di più, considerando l’irreperibilità di registrazioni o dischi pubblicati di tali lavori.

L’autore stesso inizia a scrivere un trattato teorico, “The Harmolodic Theory”, che non è stato mai terminato ed è quindi rimasto inedito, per cui non ne abbiamo trovato traccia. Tutto ciò che possiamo fare è ricostruirla attraverso interviste, dichiarazioni, booklet di dischi e ascolti.

La teoria è tracciata da Coleman in termini vaghi e filosofeggianti, che traduciamo così: “tutto ciò che c’è da sapere per avvicinarsi a essa è che la felicità è nel suo essere e nella libertà di raggiungere il più elevato piacere con essa, non in essa”.

Una delle critiche che venivano mosse all’idea di Coleman di “libertà perfetta” era quella che, partendo dalla definizione dell’arte come razionalizzazione e ordinamento dei diversi e caotici materiali della vita verso forme significative di espressione, ne rifiutava la validità accusandolo di essere antimusicale e antiartistico nonché di essersi cacciato in ciò che in realtà era una schiavitù perfetta. Ma vediamo meglio cosa si inendesse veramente con la parola “free” e di quanta disciplina necessitasse la musica di Coleman.

Nella musica dove non esiste definizione precisa di melodia, ritmo o armonia, il musicista sensibile deve trovare un approccio completamente diverso all’improvvisazione, in modo tale che non si trasformi in caos, ma in arguta e complessa rete di idee, personalità e dialogo, esplorando a fondo le dinamiche umane che si intrecciano e intercorrono nelle performances collettive. Non si può pensare che qualunque cosa sia possibile nella free music, come nella vita degli uomini. Si rende così necessario il rigore della costante attenzione all’ascolto e al dialogo, che porta alla consapevolezza più piena di tutti gli elementi musicali messi in campo, nonché dello stato d’animo e delle intenzioni degli altri musicisti. Tra questi ultimi, inoltre, si perde l’idea che ci possa essere il più importante o che si assegni una funzione all’uno o all’altro. Si arriva a una sorta di liturgia, in cui la preghiera di tutti ha lo stesso valore ed è quindi più intensa o, se si vuole, a quella visione sociale della convivenza che ha trovato nel pensiero e nella pratica politica varie manifestazioni.

Cercando di scendere a un livello più terreno e tornando all’Harmolodic di Coleman, il principio dovrebbe condurre a “an expression of sound to bring about the musical sensation of unison executed by a single person or with a group”. L’idea della melodia come fattore unitario e unificante.

Considerando la vaghezza delle fonti e volendo mettere in campo altre ipotesi, potremmo anche essere indotti a pensare che la Harmolodic Theory sia e rimanga un concetto fortemente personalizzato, vissuto dal suo creatore in maniera intima e quasi fideistica, pertanto difficilmente trasmissibile o comprensibile dall’esterno. Citiamo le parole di Malcolm Goldstein, il violinista per cui Coleman scrisse la raccolta di brani per violino solo intitolata Trinity. Alla domanda se avesse qualche idea su ciò che Coleman intendesse con “harmolodic”, Goldstein rispose candidamente e con la pragmatica schiettezza tipicamente anglosassone: “No! He (Coleman, ndr) explained, and I listened and nodded my head, and didn’t understand (sorride). But that’s all right. I’m sure when I talk to people about improvisation and getting inside the sound they listen and nod their head too”. In questa geniale risposta forse risiede il segreto delle cose. Coleman stesso tenta di spiegare a Goldstein la sua teoria e quest’utlimo annuisce facendo finta di capire. Infatti, era come spiegare l’arte dell’improvvisazione o i misteri del suono. Giusto! Annuiamo e non capiamo, that’s all right. Ma quando arriva la musica capiamo, eccome!

Nel caso di Skies of America e delle altre composizioni che abbiamo prima citato, in cui Coleman scrive su pentagramma (deve farlo perché quartetti d’archi o orchestre possano suonare), si materializza un sistema che è (traduciamo) “basato sulle quattro chiavi, basso, violino, tenore e contralto” in modo da “modulare in altezza senza cambiare tonalità” (Coleman).

Insomma, per quello che possiamo capire, mettendo insieme tutti gli elementi e compiendo una esegesi spicciola di tali criptiche frasi, nell’assenza di enunciati teorici definitivi pubblicati e nella povertà di registrazioni da esaminare, arriviamo a ipotizzare che tutti gli strumenti dell’orchestra leggano un identico pentagramma, ma i violini in chiave di violino, le viole in contralto, i violoncelli in tenore e i contrabbassi in basso. Gli strumenti traspositori (quasi tutti i fiati) sono liberi di apportare le trasposizioni secondo la loro natura (in sib o mib ecc.).

Questo è quanto, apparentemente banale, primitivo, appunto, soprattutto se si pensa alle conquiste e, se si vuole, a certe involuzioni della musica europea scritta e meditata, pregna di implicazioni filosofico-religioso-letterarie. In fondo si tratta, pensiamo, del prezzo da pagare per la libertà; il “Free” tende a riconquistare la natura primordiale delle cose, lo stato antecedente all’ordine della logica e del pensiero speculativo.

Un’altro indizio su una variante della tecnica fin qui descritta ci viene fornito da Malcolm Goldstein che, sempre nella maniera che abbiamo avuto modo di conoscere prima, “all’americana”, descrive l’esecuzione a cui lui stesso ha partecipato di Time design, scritto da Coleman per quartetto per archi e percussioni: “everyone plays a slow melody, Ornette does what he wants and then all hell breaks loose. We all have our own material, certain pitches, but not in the same sequence. One is a page of slow note lyrical phrases, one is a notated syncopated rhythm. There is a metronome marking on each sectional page but Ornette told us to play at a different tempo from everyone else, so you get the same material collaged together in different ways”.

Stesso materiale, quindi, frasi liriche e lente o dal ritmo sincopato, stratificato in modo diverso, con altezze differenti e tempi leggermente sfasati, su cui Coleman improvvisa. Potrebbe essere un’ulteriore evoluzione della tecnica di scrittura illustrata per Skies of America, compiuta tra il 1983, data di composizione di Time Design e i tempi recentissimi in cui sono state fatte le dichiarazioni di Goldstein.

Tornando al nostro unico riferimento sicuro, Skies of America, e premettendo che non è possibile reperirne la partitura, in quanto né quello in questione né gli altri lavori per quartetto d’archi o per orchestra risultano pubblicati, un’analisi breve e approssimativa, fatta “ad orecchio”, della registrazione, ci può aiutare a comprendere meglio la plasticità della teoria colemaniana, almeno per quello che riguarda la sua applicazione pratica alla tecnica di scrittura di Skies.

Nello svolgimento dei brani abbiamo rilevato, grossomodo, le seguenti configurazioni:

A- tutta l’orchestra suona la stessa melodia, parallelamente, con le trasposizioni naturali secondo quanto descritto prima

B- l’orchestra è divisa in sezioni (2 o più) e ciascuna segue la propria melodia con le trasposizioni naturali interne alla sezione

C- tutta l’orchestra suona la medesima melodia ma con trasposizioni opportune delle voci in modo da formare accordi definiti secondo l’armonia tonale, in gran parte accordi minori.

Salta all’occhio che la parola in comune a queste tre descrizioni, la parola chiave, è: melodia. E qui siamo ad un punto caratterizzante. A Coleman sembra interessare poco la definizione della scrittura armonica o il gioco dei timbri che lo strumento orchestra permette di scatenare. Abbiamo sottolineato prima come i temi composti da Coleman per le sue registrazioni degli anni ‘59 e ‘60, quelli che hanno portato alla svolta, al “change of century”, siano sempre di grandissima intensità, potenti, ora ironici ora struggenti ora guizzanti di un virtuosismo irriverente, in un contesto che ha allontanato gli strumenti armonici (il pianoforte). La melodia, ovvero la linea pura con la sua scansione ritmica, appare quindi come il generatore primordiale della musica di Coleman.

In Skies of America, la melodia, i temi (alcuni dei quali sono ripresi da precedenti registrazioni del suo quartetto), generano un movimento armonico che stratifica e fissa le voci, i suoni, in modo da trasformare la grande orchestra in un unico strumento musicale (un sax, una voce umana?) dal timbro immenso (si rievoca l’idea della “big room”).

Se vogliamo, anche un sax che suona una melodia trascina con sé tutta la massa di armonici che ne costituiscono il timbro e ciò avviene in modo naturale, con la più completa assuefazione dell’orecchio, che sintetizza e percepisce un unico suono più o meno ricco. Stessa sintesi si compie in questa scrittura orchestrale: ciò che viene percepito è, infine, una linea melodica di un grandioso strumento.

In questa stratificazione densa si tocca da una parte la terra e dall’altra il cielo, il giorno o la notte, come Coleman stesso racconta. Sulla terra e sotto il cielo vivono gli uomini e si dispiega l’America, la sua America, con le proprie contraddizioni “assassinations, political wars, gangsters wars, racial wars, space races, women’s rights, drugs and the death of God, all for the betterment of American peoples” (Coleman).

In tale atmosferico, anzi, stratosferico contesto (enviroment), tra Denardo che swinga alla batteria e il timpanista che rulla e segue perlopiù il disegno ritmico dei temi, improvvisamente appare il sax di Coleman, alieno, che ha già qui (1972) diluito il suo virtuosismo in una serie di lamenti che insistono su figure discendenti appese a suoni acuti indefinibili.

E’ il tipo di “fraseggio” su cui il maestro sembra fissarsi quasi instancabilmente negli anni a venire, fino ai nostri. Il suo sax è diventato una voce rauca e implorante, che prende fiato, attacca con forza e poi si spegne verso terra. Lo ascoltiamo così, immerso nella sua sezione ritmica impazzita, o quando spiega la sua elegia disperata sopra gli arpeggi del primo preludio di Bach suonato dal contrabbasso.

Ora il tempo è finito e le strade da esplorare si moltiplicano. Contiamo, in futuro, di avventurarci ancora di qualche passo, sulle tracce di Ornette Coleman, per capire le forze che lo hanno spinto a imbracciare il violino e a farlo in un certo modo, improvvisando e componendo musica con e per quello strumento. Ma, prima di questi passi, dovevamo fermarci a capire qualcosa di più della sua visione globale della musica.

5. Le opere per archi di Coleman

Con difficoltà elenchiamo le opere di Coleman che coinvolgono gli strumenti ad arco. Molte di esse non sono state neppure eseguite o registrate.

ORCHESTRA SINFONICA

•    Inventions of symphonic poem, 1967.

•    Saints and soldiers, 1967.

•    Space flight, 1967.

•    Skies of America, Columbia KC 31562, Ornette Coleman (as), Dewey Redman (ts, ob), Charlie Haden (b), Ed Blackwell (d), David Measham (cond), The London Symphony Orchestra, eseguito a Londra, maggio 1972. Parte 1: Skies of America / Native Americans / The Good Life / Birthdays and Funerals / Dreams Sounds Of Sculpture / Holiday for Heroes / All of my Life / Dancers / The Soul / Within Woman / The Artist in America; parte 2: The New Anthem / Place in Space / Foreigner in a Free Land / Silver Screen / Poetry / The Men who Live in the White House / Live Life / The Military / Jam Session / Sunday in America.

QUARTETTO D’ARCHI

•    Dedicated to poets and writers, quartetto d’archi, prima esecuzione New York’s Town Hall, 1962.

•    The sacred mind of Johnny Dolphin, doppio quartetto d’archi, tromba, percussioni, 1984.

•    Prime  design,  Time  design,  Caravan  of  dreams,  Forth  Worth,  TX,  CDP  85002, quartetto d’archi amplificato, electric drum set, basato su un’idea e dedicato alla memoria di Buckminster Fuller, eseguito da The Gregory Gelman ensemble e Denardo Coleman,1983.

•    In Honor of NASA and Planetary Soloist, per il Kronos Quartet e Joseph Celli (oboe, corno inglese, mukhaveena [strumento a fiato indiano]), commissionato da Fromm Music Foundation at Harvard University, eseguito nella Weill Recital Hall, NYC, 1986; serie di brevi movimenti jazz-based ... the first contrasted frenetic string scrapings with swinging calm from Mr. Celli, others (especially when the guest played squawks and chatter on an Indian honker called the mukhaveena) reversed the polarity.

VIOLINO SOLO

•    Trinity, violino solo.

•    Notes talking, mandolino solo.

Luigi Mangiocavallo

Roma, ottobre 2010


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